È vero che, quando si distribuisce più tecnologia, c'è più progresso?
Governare la tecnologia con un approccio umano
Cosa c’entra la tecnologia con l’umanesimo?
Proprio oggi, mentre l’intelligenza artificiale avanza rapidamente e si diffonde nelle imprese come un fiume in piena, ci sono aziende che scelgono un modello antropocentrico, che partendo dalla connettività tecnologica sviluppa connessioni e relazioni umane. Proviamo allora a portare il dibattito antropologico nei contesti aziendali per capire quale tecnologia produrrà del vero progresso umano.
Il futuro dell’impresa, d'altronde, è in sottile equilibrio tra innovazione tecnica e sviluppo della sua componente antropica. Data questa dualità, imprenditori, accademici, antropologi e artisti possono in egual misura contribuire, collaborando, a questo nuovo modo di intendere il progresso. Anche l'intelligenza artificiale e più in generale la digitalizzazione possono (o devono) convivere con un modello di gestione aziendale che valorizza le persone, anziché sostituirle.
In questo articolo vogliamo instradare un dibattito sull'intelligenza artificiale e il suo rapporto con il valore dell'umanità in azienda.
No, non si tratta di "mettere le persone al centro"
Oggi più che mai è necessario chiarire che non stiamo parlando di "mettere le persone al centro", motto che è diventato un mero slogan da campagne marketing. È un concetto superato, (e ve lo sta dicendo la responsabile del marketing di Professional Link).
Dalle aziende oggi pretendiamo molto di più: l'impresa deve riconoscere l'importanza delle persone come esseri umani completi, con le loro emozioni, aspirazioni e capacità. Serve quindi creare un ambiente in cui sia possibile esprimere potenziale e che faccia sentire parte di un sistema rispettoso.
È un impegno concreto a promuovere il benessere e la crescita personale e professionale, a garantire che la tecnologia e l'innovazione siano strumenti al servizio dell'umanità, piuttosto che sostituti di essa. In questo contesto, "mettere l'umanità al centro", e non le persone, diventa il principio chiave per un progresso economicamente e socialmente sostenibile. Diventa allora fondamentale il ruolo della mediazione.
Abilità + Conoscenza = Competenza
Per mediare, è essenziale che ci sia una condivisione di un codice comune, che può manifestarsi sotto forma di linguaggio, una base culturale condivisa, o la conoscenza di un determinato argomento. Questo codice funge da ponte tra le diverse parti coinvolte, permettendo una comprensione reciproca e facilitando lo scambio di idee e informazioni. Tuttavia, la mediazione richiede anche un mezzo fisico che renda possibile l'interazione. Ad esempio, l'aria è fondamentale per trasportare la voce, permettendo la comunicazione verbale tra le persone. Allo stesso modo, un'opera d'arte può servire come veicolo per trasmettere un messaggio complesso, evocando emozioni e stimolando riflessioni attraverso la sua tangibilità. Questi elementi, sia fisici sia immateriali, lavorano in sinergia per creare un ambiente in cui la mediazione può effettivamente avvenire, consentendo alle persone di connettersi e comunicare.
La tecnologia è un mediatore a tutti gli effetti perché, per poterla utilizzare efficacemente, è necessario possedere un minimo di conoscenza. Questo implica non solo la capacità di utilizzare gli strumenti tecnologici, ma anche di interpretare il vasto ecosistema digitale in cui essi operano.
Tuttavia, la tecnologia è anche un mezzo fisico che modifica il nostro ambiente in modo concreto. Ad esempio, la presenza costante di dispositivi mobili può influenzare le dinamiche familiari e sociali, come quando ci si trova a tavola e si nota che qualcuno è sempre al telefono. Oppure, la dipendenza da una connessione Internet stabile è diventata essenziale per molte attività lavorative, al punto che l'assenza di tale connessione paralizza la produttività.
Pertanto, con il mediatore tecnologico, non è sufficiente possedere solo l'abilità tecnica di utilizzo; è fondamentale avere anche una conoscenza del contesto in cui la tecnologia si inserisce. Ecco quindi che la somma di abilità e conoscenza porta alla competenza: è a questo che l'impresa deve mirare per non soccombere alla tecnologia, ma anzi direzionarla verso un futuro desiderabile.
<<Nella nostra società digitale la tecnologia rischia di creare bisogni, piuttosto che progresso. In Professional Link ci proponiamo di governare la tecnologia, anche quella di ultima generazione come l’intelligenza artificiale, facendo ricorso ad un modello umano di gestione dell’impresa, capace di costituire un’identità culturale>>
L'arte pone delle domande, l'azienda deve dare risposte
Anche il ruolo dell'artista è quello di un mediatore, di un visionario che ci mette in comunicazione, tra le altre cose, anche con il nostro domani. L'artista, attraverso le sue opere, riesce a trasmettere messaggi complessi e a evocare emozioni profonde che ci spingono a riflettere sul nostro presente e a immaginare il nostro futuro, sfidando le convenzioni e stimolando il pensiero critico. Ogni pennellata, ogni nota musicale, ogni verso poetico diventa un invito a considerare le conseguenze delle nostre azioni e a prendere decisioni consapevoli che plasmeranno il domani.
Dato il contesto che l'intelligenza artificiale ha creato, oggi anche l'arte deve ridefinire il suo ruolo. Questo, reagendo con nuove critiche e domande, innovando prima di tutto il suo stesso modo di rappresentare, trovando linguaggi che possano dialogare con le innovazioni tecnologiche.
Arriveremo presto ad un punto in cui la capacità tecnica della macchina supererà quella dell'artista, quindi cosa ci resta? Ci resta l'esperienza umana, quelle intuizioni generatrici che le macchine non possono replicare. In questo caso, l'arte è uno strumento per guidare l'evoluzione sociale. Riflettiamo quindi su come dare valore all'immateriale, al pensiero creativo che è proprio solo dell'essere umano.
In questo contesto, pensiamo che l'azienda abbia il compito di raccogliere le provocazioni artistiche e trasformarle in risposte concrete, sviluppando soluzioni che contribuiscano a un progresso sociale sostenibile e che siano all'altezza delle sfide del nostro tempo.
Quello in merito ai futuri possibili che ci aspettano è un dibattito aperto a tutti i CEO. L’obiettivo? Dimostrare che un’impresa può essere innovativa e tecnologicamente avanzata senza rinunciare ai valori umani che dovrebbero guidarla. Sfidante, non è vero?
In quale futuro ci interessa vivere e fare business
Per una realtà produttiva, cosa significa oggi sviluppare soluzioni che creino un reale progresso per chi le utilizza? Rispondiamo tramite un approccio antropologico al business creando tecnologie che rispondano a dei bisogni, non che ne creino di nuovi.
Adriano Olivetti vedeva l'impresa non solo come un'entità economica, ma come un pilastro sociale con una missione e una vocazione. Oggi questo è ancora vero: l’azienda è un elemento basilare della società perché la plasma, nel bene o nel male, tramite il suo impatto ambientale, i suoi prodotti e le sue politiche occupazionali. Negare la responsabilità sociale di un’azienda è un tentativo di de-responsabilizzazione.
Tra le tante cose che l’azienda fa, c’è sicuramente il generare profitto. Questo non è né un bene né un male, tutto dipende da come questo profitto è generato, verso chi e in quale misura è incanalato. Al lavoratore può tornare un salario che deve consentire di vivere in serenità, ma il nostro obiettivo comune, come aziende, deve essere più alto: non solo, come diceva Olivetti, "pane, vino e casa" (che pure è la base minima), ma anche benessere mentale e fisico, formazione, crescita personale e professionale, coscienza etica, relazioni sociali, ambiente favorevole all’ascolto. Questo vuol dire che il lavoratore è ogni giorno più ricco su un piano più alto rispetto a quello del compenso economico. Si tratta di un investimento nella formazione di menti capaci di immaginare il futuro.
L’approccio umanistico è profittevole
Cento anni fa si verificò una significativa trasformazione sociale. Il Regio Decreto Legge del 10 settembre 1923, n. 1955, diventato appunto legge nel 1925, ridusse la giornata lavorativa di un operaio in Italia da 12-16 ore a 8 ore.
Questa modifica legislativa introdusse e diffuse ampiamente il concetto di "tempo libero". Il tempo libero poteva essere utilizzato per migliorare il benessere personale, per l'istruzione e per lo svago, creando così nuove opportunità di profitto nel settore terziario, allora poco sviluppato. Inoltre, contribuì ad aumentare il benessere generale dei lavoratori, rendendoli di conseguenza più produttivi. A riprova di questo, oggi, a distanza di un secolo, si discute ancora di riduzioni dell'orario lavorativo, con il tema della "settimana corta".
Il tempo libero ha offerto l'opportunità di riflettere, sperimentare, innovare e, di conseguenza, progredire.
Le imprese possono generare profitto partendo da una visione rinnovata del futuro se iniziano a misurare non solo i termini finanziari, ma anche il profitto sociale. Le aziende possono investire in formazione interna, in sicurezza, in ambienti di lavoro studiati sui bisogni della persona, in collaborazioni con enti territoriali e associazioni, in iniziative volte ad arricchire il bagaglio culturale del lavoratore. Tutto questo porta ad avere persone che la sera tornano a casa serene, che non sono consumate dallo stress o dalla rabbia, e che quindi sono in grado di portare ai loro cari un pezzo di quella felicità che hanno maturato in azienda. Questo approccio fa sì che l’idea del fatidico “lunedì mattina” non pesi come un macigno già la domenica pomeriggio, e che quindi la mente sia predisposta ad accogliere nuovi stimoli e generare nuove soluzioni, che poi si trasmettono nei servizi venduti dall’azienda.
Si sta iniziando a parlare di “Capitalismo Consapevole” e di “Economia Civile” perché le imprese che abbracciano questi principi cercano di creare valore non solo per gli azionisti, ma anche per i lavoratori, la comunità e l'ambiente.
Rischi nascosti nelle opportunità tecnologiche: mitigarli grazie a una maggiore dose di umanità
Le onde di rinnovamento tecnologico si susseguono con frequenza sempre più alta. Eppure, la diffusione di tutta questa tecnologia non è sempre indice di progresso. Spesso la tecnologia induce nuovi bisogni piuttosto che risolvere problemi.
Noi acquistiamo la tecnologia perché ci piace, perché ci affascina, perché la riteniamo "bella". Ci crea un problema ma al contempo ce lo risolve, e siamo affabulati da questo meccanismo.
Adottiamo allora una visione di lungo termine per non soccombere alla successione di eventi che regola lo sviluppo delle nuove tecnologie. Iniziamo a pensare che il vero sviluppo non si ha assegnando più tecnologia, bensì distribuendone equamente i vantaggi. Noi abbiamo un grande potere, quello di creare il futuro; e il futuro che creiamo dipende indubbiamente dalle scelte che facciamo oggi.
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Nata per iniziativa di Andrea Ferlin, imprenditore convinto sostenitore della sostenibilità sociale e del valore della persona oltre la digitalizzazione quali fattori per trasformare la complessità tecnologica in semplicità, oggi PLINK può contare su un team di 40 persone distribuito tra Lombardia ed Emilia Romagna.